Introduzione

Per presentare, come mi è stato gentilmente richiesto, questa meritoria iniziativa della Comunità montana dei Monti Martani e del Serano, non trovo modo più adatto che partire da uno dei tanti incontri «minori» che aggiunsero fascino e interesse a una ormai lontana esplorazione a tappeto della architettura religiosa tardomedievale dell’antica diocesi di Spoleto. Quella ricerca, che risale a quasi mezzo secolo fa, anche perché non portata a intero compimento, non ha avuto agio di pubblicazione. Ne conservo però il pingue raccolto fotografico – dovuto in gran parte alla maestria di Ferdinando Turchi – da cui estraggo due immagini che si riferiscono al territorio del plebanato di Trevi.

Si tratta di due dettagli dell’antica strada, mezzo carrareccia e mezzo mulattiera, che da Collecchio si inerpicava fino a San Martino. La prima foto, scattata verso monte, mostra il percorso all’altezza del bivio che sulla destra ridiscende verso l’antico ospedale di San Tommaso. Come spesso avveniva, il bivio è segnato dalla presenza di una fonte, già allora invasa in parte dalla vegetazione, che prende il nome da Collecchio ma che forse è da identificare con quella che nelle testimonianze più antiche è chiamata «fonte di S. Severino». A partire da qui il percorso si fa più impervio e ne vediamo il tratto più alto nella seconda foto, scattata verso valle. Riguardandola oggi e non essendomi più recato sul posto mi domando se il luogo si presenti ancora nelle condizioni che a quel tempo ci restituivano ancora un seducente equilibrio di manufatti e di presenze naturali: il piano erboso della mulattiera, la farnia dominante, il muro a secco che recinge l’uliveto e, congiunto a un vecchio terrazzamento, il portale di ingresso al fondo agricolo, forse trasformazione di un’edicola. Il suo scorcio invita lo sguardo a scrutare i lontani, confusi fra la piaggia e la vasta pianura, dove appena si percepisce un più fitto abitato.

In un micro-luogo simile a questo la presenza di un’edicola denunciava normalmente la cura, l’attenzione dell’homo viator per i suoi simili, anzi ne era, in un certo senso, il monumento. Pur se destinata ad essere più volte trasformata e ripristinata, doveva però conservare sempre la sua emergenza, che anche in occorrenze di visibilità ridotta o di oscurità segnalava al viandante o al pellegrino il momento del riposo e del raccoglimento e insieme l’approssimarsi di una «stazione» importante, segnale a sua volta che la meta in forma di città era ormai molto vicina.

Attraverso una carrareccia, una mulattiera, una fonte, un’edicola, un portale che dava importanza a un fondo, l’osservatore moderno vedeva riaffiorare con tratti spesso avvincenti l’originale contesto ambientale del suo oggetto di studio. Riprendiamo il nostro esempio. Le numerose chiese e cappelle, erette o ricostruite quasi tutte in età romanica immediatamente a valle o a monte della via, San Tommaso con il suo ospizio, San Pietro a Pettine, Sant’Andrea di Collecchio, Santa Maria in Valle e la stessa San Martino, destavano subito interesse anche esaminate una per una nei sobri caratteri dell’architettura, nei materiali e nelle tecniche di lavorazione, nei resti degli ornamenti; ma considerate nell’insieme si rivelavano legate in percorsi coerenti, scanditi a distanze ravvicinate dai loro semplici volumi in pietra chiara. Il pregio dei singoli edifici era esaltato sia dalla serie quasi coeva di omologhi che veniva a formarsi, sia dalla micro-rete viaria che li collegava e che a sua volta si allacciava alla più battuta strada pedemontana verso nord e, a maggior ragione, all’asse della «via romana», come la via Flaminia era chiamata. In tal modo, ad assumere un forte rilievo era, per dir così, un valore collettivo, costituito da un insieme di luoghi, un territorio che si popolava di testimonianze o anche di semplici segni, in grado di rispecchiare le abitudini, le frequentazioni, le difficoltà, ma anche l’ingegnosità e la progettualità di individui e di aggregazioni da noi così lontani.

Il censimento delle edicole del distretto di competenza, promosso dalla Comunità montana, mette in evidenza ciò che, luogo per luogo, resta, spesso purtroppo assai alterato, di questo valore collettivo. Personalmente, non so vedervi altro scopo che non sia quello di: a) affermare un proposito; b) rivolgere in varie direzioni un appello affinché il salvabile sia salvato. Affermare un proposito, perché alla messa a punto di un apparato conoscitivo deve corrispondere, per elementare conseguenza, l’avvio di un’attività sistematica di protezione, restauro, prevenzione. Rivolgere un appello in varie direzioni, perché se la tutela del patrimonio architettonico compete, anche dopo il recente Codice, allo Stato attraverso i suoi uffici periferici, l’istanza di recuperare, conservare e tramandare quanto c’è di interconnesso e, ancor più, di «corale» in questi aspetti primari del patrimonio culturale e ambientale spetta alla Regione e alle autonomie locali. Con particolare accentuazione negli ultimi anni, queste hanno fatto propria, o almeno accompagnato, la tendenza assai diffusa a identificare lo sviluppo e la valorizzazione dei territori con la moltiplicazione di zone industriali, l’insediamento di ipermercati e soprattutto con l’incentivazione di infrastrutture stradali e l’inevitabile corredo di tangenziali, viadotti, raccordi: una tendenza che riflette una visione economica ispirata, si direbbe, a modelli di sviluppo di origine americana, per esser precisi in auge negli Stati Uniti fino agli anni settanta, caratterizzati dall’enorme aumento di parkways e dei relativi macro-poli commerciali. Si ha tuttavia l’impressione che non si sia valutata abbastanza la violenza dell’impatto del loro trasferimento in contesti completamente diversi. Certo, una pianura è ovunque una pianura. Ma essa non può essere considerata semplicemente un’opportunità spaziale quando è parte viva di un tessuto storico, articolato in un intreccio assai complesso e densamente sedimentato.

Vorrei chiudere questa breve presentazione esprimendo la speranza che iniziative come questa patrocinata dalla Comunità montana contribuiscano a riequilibrare l’idea di sviluppo dei nostri territori oggi prevalente anche in seno alle istituzioni: un’idea che, a mio parere, non si è ancora bene integrata con la consapevolezza che anche al salvataggio, finché si è in tempo, di queste reti di luoghi, con i loro caratteri identitari di natura e di storia, con i segni di vita che trasmettono, con i percorsi, anche conoscitivi, che suggeriscono, occorre riconoscere un’incomparabile valenza sociale ed economica. O vogliamo stare dalla parte di chi sostiene che il «sentito dire» e il «visto» mediatici sono l’unico, moderno modo di apprendere e di formarsi; che l’esperienza del vero è cosa d’altri tempi; e che un luogo dove puoi trovare solo una mulattiera, una fonte e un’edicola è condannato a non attrarre nessuno?

Bruno Toscano, Professore Emerito Università Roma Tre

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