Quella che vi raccontiamo più che una ricetta è una tradizione, è parte della vita stessa del nostro mondo rurale di un tempo che fu!
Fare il pane in casa era una delle faccende che impegnava quasi settimanalmente le donne della famiglia.
S’iniziava la sera mettendo la “massa” a lievitare nella madia – “la mattera”.
In pratica, si prendeva un pezzo di pasta di pane (il lievito), accantonato dall’infornata precedente, e dopo averlo sciolto in acqua tiepida, si versava in una buchetta ricavata nella farina, messa a fontana, necessaria ad assicurare il fabbisogno di pane per tutta la famiglia, per 7-10 giorni circa.
La donna più anziana provvedeva sempre a “segnare con la croce” la “massa” posta a lievitare.
La stanza ove avveniva questa operazione, in inverno era mantenuta calda appoggiando sul pavimento degli scaldini o dei pentoloni pieni d’acqua bollente.
La mattina successiva, di buon’ora, le donne iniziavano ad impastare la “massa” con la farina, aggiungendo acqua calda sino ad ottenere un impasto morbido.
Questo si suddivideva in più pezzi, che si continuavano a lavorare a lungo sulla spianatoia per ottenere un perfetto amalgama, ed infine venivano confezionati i filoni di pane.
Quando erano pronti, dopo averne inciso la superficie con un coltello – talora il segno era a forma di croce – si disponevano in file ordinate su un stretta e lunga tavola – “la tavola de lu pane” – coperta da un telo grezzo (di canapa o di cotone) e si copriva il tutto con un altro pezzo di tela – “li mantilli”.
Nelle giornate più fredde al di sopra del telo superiore poteva anche essere messa una coperta di lana, per favorire la lievitazione del pane.
Un pezzo di pasta era riposto nella madia, coperto con un leggero strato di farina, per essere utilizzato come lievito in occasione dell’infornata successiva.
Quando il taglio sulla superficie dei filoni di pane iniziava ad aprirsi, indicando che la lievitazione stava procedendo bene, si accendeva il forno.
Questo era scaldato con delle fascine ottenute dalla potatura delle viti, ma anche con rovi e stocchi del granturco – “li zamparuni”.
Il tipo di legna utilizzato influenzava in modo sensibile la fragranza e la colorazione, più o meno dorata, del pane sfornato.
Quando la volta del forno era imbiancata, la temperatura raggiunta era quella giusta per una cottura ottimale.
Allora si accantonava la brace in un angolo, per mantenere il calore, e si puliva il pavimento del forno con uno straccio umido legato all’estremità di un lungo bastone – “lu ceneracciu”.
Il forno veniva, quindi, richiuso per alcuni minuti, per garantire la diffusione uniforme del calore in tutto il suo interno.
Si procedeva poi ad infornare il pane con una lunga pala di legno – “la ‘nfornatoia” – che di solito era manovrata dalla donna più esperta. Dopo un’ora circa il pane era pronto per essere sfornato.
Si apriva “lu spurtéllu” e con la stessa “‘nfornatoia” si procedeva ad estrarre “li filuni” ad uno ad uno.
Secondo un’antica tradizione il pane fresco non doveva essere tagliato, ma solo spezzato; inoltre, mai si doveva appoggiarlo capovolto – questo si riteneva, infatti, un gesto di disprezzo verso l’alimento più importante della povera tavola familiare.
Appartiene certo ai ricordi permanenti di chiunque abbia vissuto quei gesti d’una sacralità avita, la fragranza lieve e persistente che si spandeva nell’aria in quell’attimo fugace.
Quell’odore unico ed antico che pervadeva in breve anche madie e cucine, ove quel pane caldo e profumato era riposto con gesti d’amore. Un amore che solo la fatica e il sacrificio di una vita di lavoro sapevano donare a tutte le cose più semplici ed essenziali: come un pezzo di pane dorato e fragrante, appena sfornato.
Tutto questo ci è stato gentilmente raccontato dalla signora Enedina Lucidi di Spello (il racconto è stato raccolto da Giampaolo Filippucci e Tiziana Ravagli).