PATRIARCA VERDE PERDUTO
Si trattava di vecchie alberate, ove la vite si appoggiava su un singolo albero-tutore vivo, probabilmente residuo di ancor più vecchie piantate. Ebbene, questo particolare (e praticamente unico) ambiente residuale della Valle Umbra, oggi non esiste più.
L’invecchiamento delle piante, soprattutto delle viti e dell’orniello, e le moderne necessità agronomiche hanno autorizzato l’abbattimento di questo che si presentava come uno tra gli ultimi esempi di un’economia agraria, purtroppo, non più al passo con i tempi.
Un altro pezzo del nostro ambiente vallivo perduto per sempre!
SCHEDA CENSIMENTO (31.05.2015)
Nome botanico della specie: Vitis vinifera L. (Celtis australis L., Fraxinus ornus L.)
Circonferenza tronco: 0,45-0,50 m – vite più grande e dall’aspetto più vecchio
Altezza pianta: non rilevata (effetto potatura)
Ampiezza chioma: non rilevata (effetto potatura)
Stato di salute (a vista, all’atto del sopralluogo e dello scatto fotografico): discreto/buono per le viti – seppure mostrino evidentemente i segni dell’età; discreto/buono per i bagolari; non buono per l’orniello qui indicato
Altitudine (m s.l.m.): 228
Rilevatore/autore della scheda: Giampaolo Filippucci, Alvaro Paggi, Tiziana Ravagli
Nel fondo agricolo, quest’anno utilizzato per produrre fieno, vegetano ancora alcune piante di viti maritate a bagolari e in un caso a orniello. Si tratta in particolare di alberate, ove la vite si appoggia a un singolo albero-tutore vivo, forse residuo di ancor più vecchie piantate. Questa antica tecnica di coltivazione della vite, insieme a quella della piantata, è di origine etrusca ed è documentata storicamente. L’insieme vite-albero tutore era definita dagli antichi Romani arbustum gallicum perché comune nella Gallia Cisalpina, ove i Galli continuarono questa tecnica agronomica messa a punto dagli Etruschi. In questo lavoro sugli alberi monumentali del territorio abbiamo voluto ricordare le alberate di Matigge non tanto per la dimensione delle piante rilevate o per la loro età, quanto per ricordare antiche tradizioni della civiltà rurale per le quali la vite assicurava i suoi frutti ma al contempo il tutore vivo garantiva foraggio fresco per il bestiame. La vite maritata, infatti, è propria dell’agricoltura basata sulla millenaria economia di sussistenza, nella quale l’agricoltore lavorava per l’autosufficienza [R. Buono, G. Vallariello 2002]. Si tratta di un chiaro esempio di consociazione produttiva ove la vigna produce uva, ma anche foglie da utilizzare come foraggio e legna da ardere proveniente dalle potature dei tutori e delle viti.
Qualche considerazione sul nostro paesaggio agrario...
Con un richiamo preciso al nostro territorio, ricordiamo che Ser Francesco Mugnoni nei suoi Annali dall’anno 1416 al 1503 scrive che la viticoltura ebbe a partire dai suoi tempi notevole impulso grazie alle ‘pergole’, certamente per il tipo di agricoltura che queste consentivano: [111] «[…] Jtem per prima erano vigne per tutto Murj et Manciano et Matigia: in Manciano et in Murrj non ce è niuna [cioè «non ce n’è più niuna»]: sono sequite le pergole da quisto tempo in qua, che se vede omne cosa esser posto pergule […]» [‘Annali di Ser Francesco Mugnoni da Trevi’, www.protrevi.com].
Per inciso ricordiamo che il toponimo Murj (o Murrj), citato da Ser Mugnoni, è l’attuale Morro: il colle compreso tra i Cappuccini e il fosso dell’Eremita.
Il successivo sviluppo di tale sistema di coltivazione della vite ci è confermato anche dai viaggiatori del Grand Tour che attraversando la Valle Umbra ebbero modo di apprezzare la nostra campagna e di descriverla nei loro diari.
Ne citiamo alcuni stralci.
Edward Wright, inverno del 1721: «[…] Da Foligno a Spoleto, la strada è molto piacevole, coltivata da tutte e due le parti nel modo Lombardo: con le viti appoggiate agli alberi […]».
Joseph-Jerom Lefrançais de Lalande, diario del viaggio in Italia negli anni 1765, 1766: «[…] Si cammina su di una strada molto bella che è come un viale di pallamaglio […] si traversa una gran vigna in cui le viti salgono sugli alberi che sembrano una foresta piantata a quinconce; questi alberi sono gelsi bianchi, sicomori e olmi […]».
Anna Miller, maggio 1771: «[…] Da ogni lato della strada, il nostro panorama era costituito da una ricca campagna, piantata fittamente da gelsi bianchi, sicomori, olmi, e vigne. Il grano cresce abbondante tra i filari degli alberi […]».
In questi racconti notiamo l’assenza sia del bagolaro sia dell’acero campestre, presenti invece nella coltivazione rilevata con questa scheda. Il bagolaro nella nostra economia rurale è stato usato come tutore vivo in quanto è un albero resistente, che offre legname di buona qualità, non facilmente attaccato da parassiti, longevo e, come detto, con le fronde giovani particolarmente gradite al bestiame.
L’orniello, certamente meno usato, era spesso scelto per il rapido sviluppo vegetativo, ma al contempo perché poco invasivo nei confronti della vite e soprattutto del suo apparato radicale. In generale ricordiamo che nelle piantate della Valle Umbra meridionale le specie arboree più utilizzate sono state l’olmo (Ulmus campestris L.) e l’acero campestre (Acer campestre L.).
Storicamente il primo è il tutore classico citato da Virgilio, Orazio, Ovidio, Marziale e Giovenale. Il secondo, poco apprezzato dai Romani, fu invece utilizzato nelle epoche successive e a partire dal XVI secolo molti agronomi si mostrarono decisamente favorevoli al suo uso nel contesto di questa pratica agronomica.
Annotiamo, infine, che su questo fondo agricolo vegetano anche bellissime roverelle di discrete dimensioni (riportiamo i dati dell’esemplare più grande: circonferenza tronco 3 m, altezza 20 m, ampiezza chioma 23 m).
La proprietà di questo terreno è della famiglia Battistini, che ringraziamo per la cortesia e la disponibilità.